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ALLEGORIA DELL'OCCIDENTE
1992, Mostra alla Galleria Aleph di Milano
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UN TEMA, UN PENSIERO, UNA MOSTRA
di Gonzalo Alvarez Garcia

Per conoscere la densità di un artista a volte basta semplicemente sentirlo parlare o stringergli la mano. Io ho ascoltato a lungo Galimberti. Le sue parole escono come un torrente, cariche di passione, di amore, di odio, di rabbia. Ho stretto la sua mano. È compatta come la pietra, il legno o altra materia primordiale. Ha una mano forte, durevole, leale, non scivolosa. Una mano della quale puoi fidarti, piena di tatto.

Si sa che il tatto, insieme alla vista, all'udito e al palato, sono le fonti originarie della conoscenza. Quando immagino lo mano di Galimberti posarsi sugli oggetti sono certo che lo fa con irruenza, ma anche con paziente gentilezza. Potrei giurare che ciò che intende fare non è disegnare forme, ma plasmare essenze. Non si fermerà alla superficie degli oggetti; continuerà a scavare sino a giungere al cuore delle cose per riportarlo a galla.

Galimberti non può fare a meno di dipingere. Se un giorno gli si impedisse di farlo, diventerebbe pazzo, suicida o assassino.

Gli uomini cominciano a desiderare con vera ansia che qualcuno li aiuti a ritrovare se stessi e il cuore delle cose che hanno smarrito per strada mentre, ebbri di entusiasmo per il Dio Tecnologico, si sono lasciati trascinare nella lunga maratona consumistica.

Manipolando quei preziosi reperti del passato con i quali era stata costruita negli ultimi cinque, seimila anni, lo nostra civiltà, Galimberti ha costruito appassionatamente questa sua allegoria dell'Occidente.

La passione costruttiva è fondamentale in questo momento dell'evoluzione della specie umana. Giunti all'acme del consumismo, dopo il lunghissimo orgasmo di stupidità e di banalità collettiva, convertiti in feticcio il denaro e il potere di acquistare cose inutili, superflue o nocive, siamo rimasti esausti e tramortiti dalla constatazione, ancor più grave, di essere diventati merce anche noi. Non uomini, ma merce che si compra e si vende per quattro soldi nelle bancarelle rionali di questa società di massa.

Ci è toccato vivere in un momento paradossale della storia. Dopo essere riusciti a costruire una civiltà che sembrava incrollabile, ci siamo trovati con i barbari addosso.

Da centocinquanta anni a questa parte si è impadronito della guida sociale, culturale, etica della società un tipo umano primitivo al quale non interessano affatto i principi della civiltà, della cultura della scienza, della tecnologia, ma soltanto i suoi frutti. Chi governa il mondo nell'ultimo scorcio di quest'era storica moribonda, appartiene alle tribù superstiti dei raccoglitori di radici e di bacche: non conosce ancora l'arte di coltivare la terra.

Questo è il paradosso: il mondo, la casa in cui abitiamo è civile, ma il primitivo che furtivamente si è introdotto in essa, l'ha deturpata, rischiando di farla sprofondare nel nulla. Va ancora esclamando a gran voce la «morte dell'intelligenza e delle idee» ed esaltando una tecnologia che ignora e che, in fondo, disprezza come disprezzano gli ignoranti ciò che non riescono a comprendere. Un manifesto pubblicitario che, pieno di boria, si faceva vedere per le strade due anni fa, diceva «L'intelligenza non serve più; basta un circuito».

Oggi sembra che il peggio stia cominciando a passare, che "uomo cominci a sentire il bisogno di fare marcia indietro per ritrovare l'anima perduta. Lenta ancora e traballante, ritorna la fede nell'intelligenza, nelle idee, negli ideali e nella bellezza delle cose che negli ultimi cent' anni abbiamo imparato ad usare con tracotanza ebete.

Galimberti crede in questo ritorno e per accelerarlo dipinge. L'intento di questa mostra è un invito alla «riflessione sul pensiero occidentale». Non una riflessione qualsiasi, compiacente e laudatoria, ma critica e aggressiva.

«Il pensiero occidentale si è rivolto al mondo per usarlo, non per conoscerlo», come dice il pittore presentandomi la mostra. E la parola «usare», rivolta a una persona o a una cosa, significa violentarla, stuprarla.

Questa mostra non vuole raccontare fiabe o dilettare i nostri occhi con un gradevole gioco di linee e di colori, ma invitarci a riflettere insieme al pittore. Galimberti desidera assillarci e, forse, non ci si può mai fidare di un artista, fustigarci.

Per la maggior parte degli uomini riflettere è un tormento paragonabile all' autoflagellazione. Se non si è costretti cerchiamo di sfuggire in ogni modo a questo supremo compito umano. Pensare ci annoia a morte.

Riflettere su che cosa?

Su tutto: sugli Dei, sulla donna, sul corpo umano, sulla Tecnica, sulle Rivoluzioni sociali, sul progresso...

Molti uomini di cultura, della cultura di massa, danno prova di grande frivolezza. Forse ingannati dal piglio disinvolto del primitivismo manageriale, vanno ancora predicando che il progresso consiste nell'incremento quantitativo degli oggetti a nostra disposizione.

No. Il vero progresso consiste nella crescente intensità con cui percepiamo quella mezza dozzina di misteri cardinali intorno ai quali il cuore dell'umanità batte convulsamente sin dalla più remota penombra della storia.

Nei dipinti con i quali andremo a colloquiare vi sono le antiche divinità, rotte, inservibili ormai; sono state raccolte in una vecchia stanza. E creature mitologiche ed eroi in frantumi che servono da sfondo a immagini contemporanee. L'uomo ha bisogno di Dei e di eroi. Li secerne dalle proprie ghiandole esistenziali come il ragno secerne la ragnatela e l'ape il miele. E quando non gli servono più, li distrugge per crearne altri.

Insieme agli Dei e agli eroi, Galimberti ci presenta le donne.

È opportuno ricordare che la nostra civiltà cominciò con il culto della donna. La prima divinità che l'uomo adorò fu la Grande Madre Mediterranea. Nel mito pelasgico della Creazione tutto ebbe inizio nella danza solitaria di Eurinome, la quale, danzando vorticosamente con se stessa, dalla propria pienezza generò i venti e, in seguito, tutte le altre creature. Nell'Epopea di Gilgamés, re di Uruk, in Mesopotamia, scritta circa cinquemila anni fa, fu una prostituta a insegnare l'arte del vivere civile a Enkidu, il compagno inseparabile dell'eroe Gilgamés.

Nei dipinti di Galimberti il presente s'intreccia dialetticamente col passato remoto e con quello più recente.

Nello spirito dell'umanità si è andato accumulando, attraverso i millenni, l'esperienza vitale della specie umana. Niente di ciò che è esistito una volta si perde o muore del tutto. La morte non esiste; è solo un fenomeno, un'apparenza. Tutto cambia, si evolve, avanza, retrocede, si aggroviglia, ma niente scompare completamente.

Un buon psicologo sa leggere nelle pieghe del nostro spirito il passato della specie, come il geologo legge negli strati terrestri le vicissitudini del nostro pianeta. Galimberti s'immerge come un palombaro nel mare del passato per carpirne i segreti del presente e per poter intuire il futuro che ci attende. Non riusciremo ad uscire dal guado insidioso del presente - e non avremo mai futuro - se non riusciamo a riprendere il contatto con quell'enorme materia viscerale, palpitante, che è il passato. Esso è la parte più viva e feconda di noi stessi.

Se gran parte degli artisti attuali ci appaiono esangui, e li vediamo transitare mestamente, come una folla di ombre dantesche, è perché hanno perduto il legame con il grembo materno del passato.

Dentro di noi vive il Mito, con la sua seduzione arcaica; vive il paganesimo, col splendore dionisiaco, e il cristianesimo, col suo rigore dogmatico.

Che lo vogliamo o no, credenti o miscredenti, vive in noi il Cristo; ma insieme a lui vivono anche Demetra e la dispotica divinità dell’Ottocento, la Tecnica, coni, suoi riti e i suoi dogmi.

Non frequentiamo più i loro templi; ma loro sono qui, alle nostre spalle. La nostra esistenza, essenzialmente drammatica, è un groviglio di cose contrapposte che si ostinano a vivere dentro di noi con la loro natura contraddittoria.

Vengono, passano e ritornano le rivoluzioni e le sottomissioni.

Galimberti, che vive installato nel presente come un re nella sua reggia, ha dimestichezza col passato. Lo ama come si ama la casa paterna.

Il passato non è memoria asettica; è la sostanza cordiale del presente, la misura profetica del futuro.

Come potremmo trovare una strada che ci porti dall' altro Iato del muro della storia, se non fossimo in grado di ricuperare quella memoria cordiale del passato? Il pittore, il poeta, il filosofo, l'artista in genere, hanno ricevuto il dono di sentire e di presentire. Appartengono a quell'aristocrazia della società che ha il compito di guidare l'umanità verso il recupero della coscienza di se stessa e, attraverso la coscienza recuperata, verso le nuove ere che verranno a sostituire le precedenti, ormai caduche. Se dimenticassero questo compito, si convertirebbero in materia inerte, in merce consumistica, anche loro.

Galimberti avrebbe potuto limitarsi a offrirci un saggio di ottimo disegno delle immagini e di sapiente distribuzione dei colori. Ma ha voluto coinvolgerci nella riflessione. Sa che l'arte, formalmente perfetta, ma senza contenuto, è solo un'arte apparente, come la testa apollinea, ma senza cervello, solo apparentemente è una testa umana.

All' artista non chiediamo di farci stupire davanti alla perfezione puramente formale delle sue opere. ciò che gli chiediamo è di aiutarci a capire la segreta bellezza del mondo. Che proietti su di noi e sul mondo in cui viviamo il fascio di luce delle sue inquietudini, delle sue sofferenze, delle sue gioie, del suo sdegno, delle sue speranze. Che guidi i polpastrelli delle nostre dita e le pupille dei nostri occhi, affinché anche noi possiamo sentire, persino in questo mondo disordinato e caotico, la superba armonia dell'Universo.

Che Galimberti sia riuscito nell'intento, non è la cosa più importante.

Il fatto che l'abbia intentato è, di per se stesso, degno della nostra gratitudine.

GONZALO ALVAREZ GARCIA

 

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